Chi fu Giuseppe Verdi (1813-1901) è risaputo e la sua notorietà è tale da rappresentare uno dei più significativi e celebrati emblemi nazionali. Tuttavia, non è altrettanto nota la sua passione per quella cucina – genuina e variegata – che contraddistingue, ancora oggi, la sua zona d’origine. Giuseppe Verdi è figlio di quella terra emiliana rinomata per alcuni dei più apprezzati prodotti gastronomici d’Italia, quegli stessi che l’hanno resa celebre anche oltre confine e che fanno parte di una lista davvero svariata e lunghissima di piatti.
Il noto compositore nasce a Busseto, un piccolo centro in provincia di Parma, non lontano dal quale ha origine un piccolo capolavoro di arte salumiera: la Spalla cotta di San Secondo. Questo salume, particolarmente amato dal nostro musicista, costituì per lui addirittura una fonte d’ispirazione “artistica” se, per arte, s’intende quella culinaria. Verdi, difatti, realizzò una ricetta – interamente di sua invenzione – che inviò ad alcuni amici, i Ricordi, unitamente a “…due spallette di San Secondo…”.
Ma per l’austero e parco musicista la passione per questo salume e la cucina emiliana più ruspante e autentica, trapela anche dalla lettera che spedì ai destinatari del particolare dono. Questa si rivela talmente attenta e puntuale circa l’esecuzione della ricetta, che ci mostra quanta speciale attenzione egli vi riservò. Verdi esordisce suggerendo il metodo di cottura ideale: secondo il Maestro, per essere cucinate a dovere, le due spallette devono essere prima dissalate – immergendole in acqua tiepida per due ore – poi vanno messe in acqua fredda e cucinate a fuoco lento per tre o quattro ore, evitando di farle rosolare. Il tempo deve essere rispettato scrupolosamente, poiché la scarsa cottura tende ad indurire la carne, ma quella eccessiva la rende eccessivamente asciutta e stopposa. Infine, si fa raffreddare nel brodo di cottura e si serve.
Questo aneddoto non esaurisce l’interesse che Verdi aveva per i prodotti salumieri, dal momento che era anche un grande estimatore di quello che si può definire, a ragione, il re dei salumi: il culatello, un prosciutto che a fine Ottocento pochissime famiglie potevano permettersi; basti sapere che due culatelli corrispondevano, come valore, a un maiale di piccola taglia, ovvero a una riserva alimentare che, ad una famiglia, poteva bastare per un anno. Verdi, anche in questo caso, si dimostrò tanto generoso quanto orgoglioso dei prodotti della sua terra: da Villa Agata inviava abitualmente ai suoi amici sparsi per il mondo questo pregiatissimo salume, rendendolo così il degno ambasciatore dei prodotti tipici della sua terra.
Contrariamente a quanto vorrebbero dimostrare questi episodi – ovvero un Giuseppe Verdi, socievole e affabile, oltre che investito da una vena gastronomica da gran gourmet – il compositore non solo era schivo e riservato (e volutamente lontano dalla mondanità e dai clamori del successo), ma anche a tavola preferiva la cucina schietta e genuina rispetto ai sapori elaborati ed eccessivamente raffinati proposti nei ristoranti che era obbligato a frequentare.
Tra i suoi piatti preferiti c’erano, infatti, i tortelli caserecci ripieni di erbette con il lambrusco o un semifreddo a base di burro, amaretti e savoiardi; inoltre non poche sono le ricette, spesso davvero semplici, intitolate a Verdi, come gli spaghetti “alla Traviata”, conditi con un sugo a base di pomodoro e basilico fresco. Unica eccezione a tanta frugalità è costituita dalle frequenti visite alla centralissima e raffinata pasticceria milanese “Cova” dove il musicista andava ad acquistare il dolce meneghino per antonomasia: il panettone.