Quello dei film gourmand è un genere che riscuote sempre grande successo. Non pochi sono stati i registi – anche famosi – che hanno subito il fascino di questo genere, sicché abbiamo un cospicuo numero di film d’autore dove la pratica culinaria assume una veste inedita, il cui scopo è quello di ricomporsi attorno al significato più profondo della vicenda narrata.
Questo perché il cibo, la gastronomia e l’arte culinaria convivono alla perfezione anche con la settima arte, riuscendo ad evocare atmosfere assai suggestive e ricche di charme, oltre ad essere uno dei soggetti d’elezione per il suo forte valore simbolico e per l’intima capacità di realizzare scene e composizioni di incontrastata bellezza.
È il caso de “Il Fascino discreto della borghesia” di Louis Bunuel, un film in cui la carica surreale si concretizza nell’impossibilità ad organizzare una cena di cui si continua a parlare, situazione che diventa l’emblema dell’incomunicabilità e di un formalismo ipocrita, o del “Pranzo di Babette”, una fiaba nordica in cui sentimenti e cibo si intrecciano in maniera inaspettata, ma anche ne “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, un desco ben imbandito è il pretesto a segrete dinamiche di potere.
In “Mangiare bere uomo donna” del cinese Ang Lee, la cucina diviene unico motivo di vita e nei recenti “Chocolat” di Lasse Hallstrom, “Ricette d’amore” di Sandra Nettelbecke, “Come l’acqua per il cioccolato” di Alfonso Arau, i sensuali connotati del cibo si intrecciano a intense storie d’amore.
Ma i film che mostrano uno stretto legame con la cucina sono davvero tanti.“Amarcord” di Federico Fellini, oltre ad essere uno dei capolavori della cinematografia italiana, è uno di quei film in cui diversi sono i rimandi alla gastronomia: un pranzo-litigio di famiglia o quello di matrimonio della Gradisca costituiscono due momenti molto rappresentativi dell’Italia di un tempo.
Ne “La cena” di Ettore Scola, il regista racconta le vicende, spesso amare, di una moltitudine umana appartenente alla media borghesia che si ritrova al ristorante “Arturo al Portico”, mentre in “Un americano a Roma”, Alberto Sordi è un fanatico degli Usa e della dieta filoamericana che, però, soccombe, “provocato” da un piatto di spaghetti.
“Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante” di Peter Greenaway, è un film feroce e divertente al tempo stesso e basato sulla triade cibo, sesso, violenza. Dieci sono i pasti serviti in un celebre ristorante di Londra dove si consuma – sotto lo sguardo di un marito – l’adulterio tra una donna e il suo amante con la complicità del cuoco. Finale a sorpresa.
Da ricordare, almeno per il riferimento costante alla passione culinaria, “Kitchen” di Morita e il raro “Tampopo” di Juzo Itami, che narra la vicenda di un locale rifiorito grazie a una squisita minestra di spaghetti.
Alla ritualità del cibo si ispira “Il profumo della papaia verde”, Mui è una domestica innamorata del suo ricco pianista. Un film in cui la storia d’amore si accompagna ai riti gastronomici della preparazione dei cibi.
In “Affare di gusto” di Bernard Rapp, un ricco e perverso industriale soggioga il suo assaggiatore e per piegarlo ai suoi gusti, gli fa subire un’indigestione di crostacei. Mentre ne “La mia cena con Andrè” di Louis Malle, la tavola è luogo di accese discussioni filosofiche.
Infine, “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” di Jon Avent, un film « al femminile”, incentrato sulle vicende di alcune donne che gestiscono il Whistle Stop Cafè dove si prepara la specialità del titolo.
Al cinema, dunque, il cibo non viene utilizzato unicamente come medium estetico, ma visto come “pratica sociale”, un tramite per comunicare altro, per conoscere o entrare in contatto con un mondo differente dal proprio, che interpreta un messaggio fortemente emblematico che spesso permea tutto il senso del film.