È difficile, per non dire impossibile, prescindere dall’Italia se si desidera tracciare la storia del salume e ricercarne le origini. Difatti, nel nostro Paese, la presenza di prosciutti e insaccati è riferibile già all’epoca etrusca e romana, benché pratiche di conservazione della carne siano riconducibili a tempi più antichi, risalendo addirittura al Paleolitico. Ma partiamo dal termine. La parola salumen deriva dal latino tardo, ma si diffonde solo a partire dal medioevo e indica un qualsiasi prodotto conservato sotto sale (quindi anche il pesce e la carne non suina).
Tuttavia, col tempo, il termine salumeria sarà sempre più associato al suino, anche grazie all’enorme rilevanza che la carne di maiale e cinghiale riuscirà a conquistare – sotto il profilo alimentare – per la sua facile reperibilità in natura.
Dalla Preistoria, dunque, diverse sono state le fasi che la salumeria ha attraversato prima di arrivare al livello che oggi conosciamo: durante la prima fase, quella preistorica, carni di piccole dimensioni venivano essiccate e conservate grazie all’azione del fuoco o del sole, mentre in quella successiva, che coinvolge Egitto e Grecia, sembra siano stati preparati i primi veri insaccati, tra cui il salame, come testimonia un iscrizione sulla tomba di Ramsete III (1166 a.C.). Nell’Odissea (VII-VIII secolo a.C.) abbiamo la prima descrizione di un insaccato realizzato con grasso e sangue e lo stesso Aristofane (450 a.C. circa – 388 a.C. circa), nelle sue commedie, cita più volte la “lucanica”.
Lo stesso Ippocrate (460 a.C. – 377 a.C.), il padre della medicina, considera la carne di maiale particolarmente preziosa, in virtù della forza e vigore che conferisce al corpo umano per via della sua estrema digeribilità.
La terza fase è quella etrusco-romana: a parte le notizie indirette (risalenti al 500 a.C.), le prime tracce scritte sulla lavorazione della carne sono contenute nell’opera Salsiccia di un commediografo siculo del V sec a.C.. Ma è Catone il Censore (234 a.C.- 149 a.C.) che nel suo De Agricoltura illustra, per la prima volta, un metodo di conservazione delle cosce suine che consiste in salatura e successiva asciugatura. Ma abbiamo molte altre fonti letterarie illustri: il poeta latino Orazio (65 a.C. – 8 a.C.) racconta, nelle Satire, di ”… uno zampetto di porco affamato …”, e Giovenale (60 d.C.- 140 d.C.) nelle sue Satire, parla di carne di porco come cibo per i giorni di festa.
Anche una preparazione simile alla mortadella si diffonde, a quest’epoca, in area romana: è realizzata con carne di maiale e mirto; tuttavia le primissime radici di questo insaccato sono da ricercarsi in Bonomia (antico nome della città di Bologna, da cui prenderà il nome) durante il I sec. d. C. Bisognerà aspettare il Seicento però, e precisamente il 1661, perchè il Cardinale Farnese pubblichi un bando di codifica per suddetta preparazione.
Ma i romani apprezzavano anche il prosciutto crudo tanto da dedicargli una via: l’odierna Panisperna (termine composto dalla parola panis che significa pane e perna, prosciutto). Questi prodotti suini erano così apprezzati dai romani che Marco Terenzio Varrone (I sec. a.C), nel suo trattato De re rustica, segnala importazioni di prosciutti dalla Gallia Cisalpina per soddisfare la richiesta sempre maggiore di tale prodotto.
Anche Annibale apprezzava prosciutti e affini, una passione nata in occasione della vittoriosa battaglia sul Trebbia (217 a.C). Per onorarlo i cittadini parmensi gli offrirono l’unica cosa che era rimasta dalle razzie belliche: il prosciutto. Tuttavia, alcuni scavi a Forcello, nel mantovano, risalenti al V sec. a.C., fanno credere che, qui, metodi di trasformazione della carne suina fossero già noti; difatti sono stati ritrovati maiali di circa 3 anni con gli arti inferiori asportati.
La quarta fase, quella longobarda, prolunga il periodo romano e a questa si deve la vera svolta con l’introduzione di innovative tecniche di conservazione. In particolare, a questo periodo si deve il passaggio dal cotto al crudo, con una messa a punto dei sistemi di conservazione della carne cruda.
Con le invasioni barbariche il suino diventa una delle risorse più rilevanti: non solo è un animale che si trova comunemente allo stato selvatico in tutta Europa, ma le semplici tecniche di conservazione conosciute – salatura, affumicatura, essiccatura – consentono di accumulare, per lunghi periodi, scorte alimentari commestibili assai appetitose. Inoltre, molti salumi, come i prosciutti e le pancette, diventano moneta di scambio.
Nonostante ciò, dovremo aspettare il XIII e XIV secolo perché l’arte salumiera inizi con lo specializzarsi, riuscendo a presentare con orgoglio i derivati suini sulle opulente e scenografiche tavole rinascimentali. In questo periodo, inoltre, si consolidano le differenze regionali in fatto di gastronomia e preparazioni culinarie, si inizia con l’utilizzare il salnitro artificiale per conservare la carne e nascono le prime Corporazioni per regolamentare e tutelare la produzione dei salumi.
Mentre è decisamente recente – siamo già in pieno Ottocento – la diffusione di veri salumifici e laboratori industriali. Le nuove tecnologie sviluppano sistemi per limitare le alterazioni e il deterioramento degli alimenti, dando il via ad un commercio e un artigianato modernamente concepito e favorendo così la nascita di spacci alimentari e salumerie di vendita.
Siamo dunque arrivati all’ultima fase, quella attuale, e ciò che bisogna riconoscergli è il merito di impegnarsi nella tutela e valorizzazione di prodotti tipici e a rischio d’estinzione, nella riduzione di additivi e conservanti, nell’informatizzazione della tracciabilità di filiera e nella produzione di prodotti dietetici e biologici per garantire a tutti la degustazione di queste leccornie.