Nel Decamerone Boccaccio (1313-1375) celebra con insistenza i fasti gastronomici della sua epoca, tanto da farci venire il sospetto che, nella realtà, fosse un vero buongustaio. Tuttavia, le vicende del periodo contrastavano con i sogni letterari e, nell’Europa del Trecento, afflitta da peste, fame e carestie, il Paese di Bengodi rappresentava la trasfigurazione di un desiderio più che un luogo reale.
Ricordato in diversi testi antichi anche come paese di Cuccagna, questa era una località immaginaria nella quale trovare benessere e piacere. Questo paese diventa quindi emblema di un’abbondanza culinaria impossibile per quell’epoca e che Boccaccio descrive con dovizia di particolari nella terza novella dell’ottavo giorno.
Per il poeta toscano, nel Paese di Bengodi…
“…si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua”.
Nonostante ciò, questa invitante immagine, con filari di salsicce che vengono usati come sostegni per le vigne, montagne di formaggio con cui condire enormi paioli di maccheroni e prelibati ravioli, non costituisce una celebrazione della gastronomia. L’oggetto della novella è in realtà ben altro: la beffa e non il cibo. Il protagonista Calandrino viene beffato da tre amici, Maso, Bruno e Buffalmacco, che lo spingono a cercare l’elitropia, un’inesistente pietra dell’invisibilità, attraverso un lungo viaggio che passa anche attraverso un fantastico paese ricco di cibo e piaceri.
Ma la descrizione a dir poco eccessiva della contrada del Bengodi, dove addirittura il cibo veniva “gettato” nelle bocche dei passanti, ha dell’inverosimile proprio per accentuare maggiormente la credulità di Calandrino. Sicché, a fronte della rinascita gastronomica propria del Trecento – alimentata dal recupero di antichi testi di cucina e da proficue contaminazioni con la cucina orientale e araba – esisteva anche la tendenza a dare maggior valore alla quantità che alla qualità, aspetto che ancora una volta viene colto da Boccaccio in un’opera tarda, Il Corbaccio:
“Se grosso cappone si trovava, de’ quali ella molti con gran diligenzia faceva nutricare, e’ conveniva che innanzi cotto le venisse; e le pappardelle col formaggio parmigiano similmente: le quali non in iscodella, ma in un catino, a guisa del porco, così bramosamente mangiava, come se pure allora dopo lungo digiuno fosse della torre della fame fuggitasi…”.
L’ossessione per il cibo era dunque reale e sull’onda di questo entusiasmo culinario in alcune città si spendevano ingenti somme per imbandire banchetti, tanto che i governi furono costretti a emanare leggi suntuarie, per disciplinare il lusso eccessivo e gli sprechi.